Ha lottato con dignità, ironia, coraggio contro la malattia che ce lo ha portato via. Ma non ce l’ha fatta, a pochi giorni dai suoi settant’anni, lasciandoci un grande vuoto: se ne è andato un grande del Barolo, Beppe Rinaldi. Tutti noi, gli amici da cinquant’anni, lo chiamavamo Citrico. Era un soprannome che gli era rimasto addosso dagli anni dell’Enologica, quando un compagno di classe lo definì uno “acido come l’acido citrico”, per il suo carattere intransigente, forte, mai banale.

Una foto di Beppe Rinaldi che ho scattato al Salone del Gusto nel 2012

Nel mio ultimo libro scritto con Carlo Petrini, “Slow Food, storia di un’utopia possibile”, avevo inserito un ricordo di Citrico sugli anni in cui il padre, Giovanni Battista Rinaldi, sindaco di Barolo di area laica in terra democristiana, uomo tutto d’un pezzo ma aperto al mondo, aveva concesso a quei matti d'”oltre Tanaro” – venire da Bra per un Langhetto è un po’ come giungere dalla Nuova Zelanda – di fondare nel Castello la “Libera e Benemerita Associazione Amici del Barolo”. Mi disse: “Mio padre sognava di poter fare qualcosa insieme a Petrini, ma fu fermato”. Gli feci avere il libro pubblicato da Slow Food Editore, nella nuova edizione del 2017, e quando lo andai a trovare due mesi fa,  mi rimproverò: “Potevi scrivere tante altre cose, dobbiamo riparlarne”. Lui era così, mai un compromesso, mai una frase di maniera. Lunghe pause, parole distillate come il suo grande Barolo che era difficile trovare, perché non avrebbe mai aumentato la produzione delle sue splendide vigne. La sua grande gioia era stata la scelta delle figlie Carlotta e Marta di continuare l’attività della cantina.

Dopo Bartolo Mascarello, suo cugino, e Baldo Cappellano, se ne va così l’ultimo degli “ultimi dei Moihcani” – così si erano descritti in una kermesse sul vino a Torino, in quanto barolisti tradizionali – e Beppe negli ultimi mesi si era di nuovo espresso con forza contro la scelta “scellerata” attuata dal Consorzio del Barolo di estendere ancora la zona di produzione del re dei rossi piemontesi. “Non dobbiamo fare come il Prosecco” aveva gridato, con ragione. Lo avevo cercato e mi aveva dato una piccola gioia, al telefono: “Ho letto il tuo libro sull'”Arte di bere il vino e vivere felici” e mi è piaciuto, sai… pochi fronzoli e un po’ di notizie vere per i giovani”. Non credevo alle mie orecchie, temevo il suo giudizio intransigente…

E’ difficile scrivere su Citrico.

Beppe Rinaldi, ultimo a destra, in una foto degli Anni ’80 con le Gemelle Nete e con Carlo Petrini. Sulla mitica Lambretta.

Con lui abbiamo condiviso tante avventure, ricordi, discussioni, bevute, visite al Castello quando era appena stato comprato dal Comune, assaggi in cantina, camminate tra le vigne davanti alla splendida casa costruita nel 1916 in mattoni rossi. No,  Citrico non si può descrivere. Nel libro “Storie di coraggio” di Oscar Farinetti, scritto con Simona Milvo, l’intervista con Beppe è una delle dodici dedicate ai grandi del vino. E’ da leggere. Ora il coraggio dobbiamo trovarlo noi, per farci una ragione del vuoto che ci lascia. Ha lottato, con a fianco la moglie Annalisa e le figlie Carlotta e Marta, le sue “femmine”. Mi rimane un rammarico: quel libro sulla vera storia del Barolo che avevamo sognato qualche volta di scrivere, non lo potremo fare insieme.

1 Comment

  • Antonello lanteri, 3 Settembre 2018 @ 10:50 Reply

    Grazie Gigi,
    Molto bello e vero.

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