Gli esperti di Slow Fish, che si è svolto ai primi di maggio a Genova, spiegano l’allarme chimica che modifica l’aspetto del pesce con sostanze come il cafodos, l’acqua ossigenata ecc. Quali sono i pesci nostrani e “poveri” che è giusto scegliere in estate (due reportage pubblicati su “Leggo”)

Codice 37: è il numero magico che bisognerebbe individuare tra i banchi del pesce, sui cartellini (spesso troppo piccoli) che ne certificano la zona Fao di provenienza. Indica che il branzino o l’occhiata proviene dal Mediterraneo. Se c’è la sigla 51 o 57, invece, la pesca è stata effettuata nell’Oceano Indiano, per esempio. Con la bella stagione aumenta la voglia di piatti freschi e leggeri con ingredienti dei nostri mari. Ma non è facile scegliere che pesci pigliare… in tempi di crisi. Anche perché non basta guardare in faccia lo sgombro o la buga per capire se sono freschi o no. In agguato c’è la chimica nel piatto, usata da rivenditori senza scrupoli o anche da pescatori di barche lontane che impiegano additivi per «abbellire» i prodotti ittici per le nostre tavole: perossido di idrogeno (acqua ossigenata) e cloro in primo luogo. A Genova tra due giorni si apre un festival sul mondo acquatico che si propone di lanciare un forte allarme al nuovo governo affinché tuteli di più i consumatori, insegnando anche a scegliere quei pesci dimenticati: è Slow Fish 2013 e si svolge dal 9 al 12 maggio (programma completo su slowfish.it) al Porto Antico e in piazza Caricamento, organizzato da Slow Food e dalla Regione Liguria.

Durante questa kermesse a ingresso gratuito, oltre a convegni e laboratori per imparare a sfilettare e cucinare, si esibiranno 16 grandi cuochi da tutto il mondo con piatti a base di pesce, nel ciclo di show cooking «Fish’n Chef»: tra di loro Davide Scabin – che in questa pagina presenta la sua ricetta -, Moreno Cedroni, Vittorio Fusari, Luigi Taglienti, Luciano Zazzeri, lo spagnolo Angel Leon, il francese Gaël Orieux e tanti altri. Il biologo marino Silvio Greco, docente all’Università di Scienze Gastronomiche, è il responsabile scientifico di Slow Fish. Ci anticipa e ci spiega le ragioni della sua forte preoccupazione: «Il servizio di controlli delle Asl e dei veterinari è ottimo, ma non hanno fondi e sono in pochi: purtroppo non c’è l’obbligo di indicare sul banco la provenienza del pesce né viene scritto, come per la carne, quali mangimi hanno mangiato gli animali, se sono di allevamento. Il mio consiglio è: chiedete sempre spiegazioni ai venditori, scegliete specie di stagione e nostrane, come l’occhiata, il sugarello, la triglia, la palamita, gli sgombri».  Il mare è di tutti, recita lo slogan dell’evento di Genova: l’importante è informarsi. 

Siamo un Paese con 8 mila chilometri di coste e tante grandi città sul mare, ma sui banchi dei pescivendoli andiamo a scegliere i filetti provenienti dalla pesca industriale: il persico che arriva dall’Egitto, dal Lago Vittoria, o il pangasio allevato in Estremo Oriente, nel delta dell’inquinato fiume Mekong. Sono poche le casalinghe italiane che sanno sbarbare, squamare, eviscerare o togliere le branchie da un cefalo. A Genova per quattro giorni la rassegna Slow Fish – chiusasi domenica 12 nel Porto Antico – ha insegnato a grandi e piccini come scegliere i migliori (e meno cari) prodotti nostrani che ci offrono ancora Tirreno e Adriatico per preparare un piatto sano, ricco di Omega 3 e di vitamine. I corsi di «personal shopper» al Mercato Ittico e i laboratori «In punta di lama» nell’Aula didattica di Eataly, accanto all’Acquario, hanno registrato il tutto esaurito: per la prima volta nella storica manifestazione organizzata da Slow Food e Regione Liguria c’erano massaie e famiglie intere. «Si è verifica una cesura nella società civile italiana – spiega Carlo Petrini, presidente di Slow Food International, raggiunte per il successo di pubblico dopo l’incontro con la neoministra dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo – sulla cultura del mare: intere città sono diventate “ignoranti” sul pesce, perché si sono perse le preparazioni tradizionali tramandate di madre in figlia».

Slow Fish però ha dimostrato che l’interesse sta tornando. Si va oltre alla moda del sushi e dello sashimi (anche perché il pesce crudo, se non è abbattuto a meno 25° C, è pericoloso) e si cercano specie di taglia più piccola, non a rischio estinzione. Tonno rosso, cernia, merluzzo, salmone dell’Atlantico stanno per scomparire. Ci sono 340 varietà ittiche nei nostri mari, eppure se ne mangiano soltanto sei o sette, spesso di allevamento:  oltretutto le  «bistecche del mare» costano di più e sono più inquinate. Con l’arrivo dell’estate, ecco i consigli degli esperti, come lo chef Luca Collami, del ristorante Baldin di Sestri Ponente: «Privilegiate il pesce azzurro, quello che arriva dalle piccole barche». E poi sugarello, sogliola, orata, ricciola, gallinella, sarago. A  Genova è stato presentato il libro «Scuola di cucina: il pesce» (Giunti-Slow Food, 188 pagine, 11,90 euro): da come acquistare i pesci, alla cottura, fino alle tecniche di conservazione, con le foto per riconoscere occhio limpido, livrea luminosa e branchie rosse di un esemplare appena pescato.

INTERVISTA CON IL BIOLOGO MARINO SILVIO GRECO, RESPONSABILE SCIENTIFICO DI SLOW FISH

Che tipo di pesce troviamo sui banchi delle grandi città?

«Purtroppo spesso è taroccato. Gli operatori meno onesti usano additivi e coadiuvanti chimici per far sembrare “fresco” del pesce che in realtà non lo è affatto e magari è stato pescato in Estremo Oriente più di venti giorni prima del suo arrivo in Italia».

Ci sono rischi per la salute, professore?

«Sì. In particolare è rischioso il cafodos, un additivo di provenienza spagnola che in Italia sarebbe vietato. Viene usato per rendere “vivo” soprattutto il pesce azzurro: i colori della pelle sono brillanti, le branchie rosse e senza muco, ma è soltanto apparenza».

Che cosa possiamo fare noi consumatori?

«Conoscere bene chi ci fornisce il pesce, chiedere se è stato controllato dall’Asl e soprattutto prendere pesci piccoli e a ciclo vitale breve, meno inquinati». 

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