Golosità identitarie

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È famosa per il Museo Egizio, la Mole Antonelliana, il Teatro Regio, ma c’è una triade che porta immediatamente a riconoscere il genius loci di cui si parla: il cioccolato (meglio se del tipo gianduia), i grissini (rubatà o stirati), il vermouth (bianco, rosso o rosé).

Come molte città italiane, Torino ha i suoi “prodotti bandiera”. Basta citarli per identificare la piccola capitale sabauda, caratterizzata, certo, “dai grandi portici areati e soleggiati, i negozi ricchi, le insegne dorate, i cristalli scintillanti di cielo, i bei vialoni larghi, lunghi, diritti, all’infinito” (Mario Soldati in Le due città), ma pure dalle cioccolaterie allettanti, dai fornai raffinati, dai caffè eleganti.

Sono queste tre golosità identitarie a lasciare un piacevole ricordo nella memoria di tanti scrittori che hanno visitato la città fondata dai Taurini.  

Nel 1852 Alexandre Dumas si entusiasmò per una sconosciuta e conveniente consumazione gustata nei caffè cittadini: “Tra le belle e buone cose che ho notato a Torino, non dimenticherò mai il bicerin, una eccellente bevanda a base di caffè, latte e cioccolato, servito in tutti i caffè, a un prezzo davvero basso”.  

Se Emilio Salgari battezzò “grissinopoli” il capoluogo piemontese – dove l’autore veronese dei Pirati della Malesia arrivò agli inizi del Novecento – Napoleone Bonaparte ne fu particolarmente ghiotto, tanto da promuovere la produzione dei petits bâtons de Turin anche in Francia, mentre il filosofo Jean-Jacques Rousseau definì “uno dei migliori pranzi” della sua vita quello realizzato a Torino con grissini e formaggio fresco.

Verso la fine dell’Ottocento, con il calar della sera, si diffuse un originale rito collettivo descritto da Edmondo De Amicis: “Torino ha l’ora del vermut, l’ora in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola più rapido e più caldo”.

Tra gli scrittori torinesi contemporanei, devoti alle specialità della dispensa cittadina, Giuseppe Culicchia predilige il rito del bicerin,sorbito in piazza della Consolata nel locale grande come un tram e con tavolini di marmo; Il Codice Gianduiotto  invece è lo spunto per un noir di Bruno Gambarotta; il “Punt e Mes” è amato dalla professoressa Baudino, la protagonista dei primi romanzi gialli di Margherita Oggero.

Le origini del grissino si fanno risalire al 1679, quando un bravo fornaio di Lanzo, paesino di montagna a trenta chilometri dal capoluogo piemontese, riuscì a preparare dei lunghi e sottili bastoncini di pan-grissino, croccanti e “bis-cotti”, facilmente digeribili, che fecero guarire l’augusto infante Vittorio Amedeo II di Savoia. Correva invece l’anno 1786 quando l’erborista e liquorista Antonio Benedetto Carpano riuscì a creare uno storico aperitivo utilizzando del vino fortificato aromatizzato con certe sue spezie, destinato a conquistare il mondo, soprattutto accompagnato da olive, canapè, tartine, patatine e stuzzichini vari.

Il battesimo del gianduiotto, con tanto di pergamena reale, è successivo e risale al 1867. Il cioccolato è il primo tra i “prodotti identitari” di Torino, perché il cacao arrivò dalle Americhe in Italia, attraverso la Spagna, e grazie ai matrimoni dinastici sabaudi. La capitale del ducato era una città militare, squadrata, regolare. Sorta sui resti di un accampamento Romano, a partire dal XIII secolo divenne la dépendance padana dei Savoia, che la trasformarono in una piazzaforte con cinta fortificata e bastioni, con grandi piazze urbane adibite alle esercitazioni delle guardie regie. La vita dei sovrani e dei nobili che vi abitavano era dedita più alle battaglie e alle campagne di guerra che alle delizie di corte. Così, comprensibilmente, le loro spose tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, dovevano pur consolarsi con qualche comfort food: soprattutto si innamorano del “segreto spagnolo”, portando a Torino il rito della cioccolata calda.

La passione per il Cibo degli Dei non ha più abbandonato questa città, che da allora – a buon diritto – ha sempre rivendicato il titolo di capitale italiana del cioccolato. Anzi, d’Europa… perché l’industria delle tavolette e delle praline nacque prima a Torino che in Svizzera, visto che François Cailler imparò il mestiere nella fabbrica di Caffarel e poi fondò l’azienda che sarebbe diventata la Nestlé, oggi la multinazionale alimentare più grande del mondo. E i ticinesi dalla povera Valle Blenio ai primi dell’Ottocento calarono nel capoluogo piemontese per imparare la lavorazione del cacao, diventando prima garzoni delle botteghe locali e poi artigiani in proprio.

Con lo scorrere dei secoli, la vocazione militare della città, quell’imprinting di rigore e serietà professionale che hanno contraddistinto sia i suoi imprenditori sia la classe operaia, rimase una delle caratteristiche del suo rapido processo di industrializzazione. La confermò la famiglia Agnelli, attraverso la rigorosa organizzazione fordista delle fabbriche, con le rigide scuole per diventare tecnici specializzati – la famosa Scuola Allievi Fiat che durò dal 1922 al 1976 – e con le mitiche piste di prova per i veicoli prodotti.

Come ai tempi delle Madame Reali, che si deliziavano con le trembleuse piene del “brodo indiano”, così durante la seconda rivoluzione industriale – accanto alle aziende automobilistiche – si sviluppò un’imprenditoria più “creativa”, in gran parte intorno a un nucleo di pionieri provenienti dalle valli valdesi: quella dolciaria. Sulle scatole di cioccolatini si affermarono le sigle di coppie presto diventate famose tra i clienti più golosi: Beata & Perrone, Moriondo & Gariglio, Caffarel & Prochet. Poi agli inizi del Novecento il finanziere Riccardo Gualino rilanciò la filiera con un sogno in grande, la UNICA, ovvero l’Unione Nazionale Cioccolato e Affini, per il quale edificò in Barriera di Francia il più imponente stabilimento dolciario italiano dell’epoca. Il sogno si infranse, prima per volontà di Mussolini e mezzo secolo più tardi con la bancarotta di Sindona, che portò alla chiusura la Venchi-Unica.

Oggi la più grande fabbrica di cioccolato è ad Alba, in provincia di Cuneo, creata da una famiglia di pasticceri langaroli, i Ferrero, dotati di ingegno ma anche di fortuna.

Va sottolineato che oggi circa il quaranta per cento del cioccolato italiano viene prodotto in Piemonte: in base al codice ATECO (classificazione delle attività economiche in Italia dell’Istat, Istituto di statistica) vi sono 93 aziende di “Produzione di cacao, cioccolato, caramelle e confetterie”: 52 in provincia di Torino (tra le quali Caffarel, Streglio, Domori, Leone), 23 in quella di Cuneo (con Ferrero, Venchi, Baratti & Milano), 10 in quella di Alessandria (Novi), 2 in ciascuna delle altre province: Asti, Biella, Verbania e Novara. Ora recenti indagini della Camera di Commercio di Torino indicano in 70-80 le aziende specializzate in Cibo degli Dei, comprendendo anche le rivendite e i negozi.

Come scrittori, questo non è il nostro primo libro sul cioccolato, ma la nascita del museo Choco-Story Torino ci ha spinto a rivedere e ad approfondire le nostre ricerche, ad aggiornarle e a ricostruire le storie dei pionieri del cioccolato torinese e piemontese, fornendo così una guida sia ai turisti attirati dal profumo di cacao e di nocciole e sia ai chocoholic, scoprendo tante curiosità e notizie inedite.